Franco Nocera è nato a Monreale il 29 novembre 1948. Ha studiato all’ Accademia di Belle Arti Sezione Pittura, sotto la direzione di Alberto Ziveri, Michele Dixit Domino, Totò Bonanno, Lina Gorgone, con Gino Morici per l’affresco, per la calcografia Pippo Gambino. Ha insegnato disegno e storia dell’arte negli Istituti tecnici, assistente di figura al Liceo Artistico di Vicenza, insegna Pittura all’Accademia di Belle Arti di Palermo. Fondatore del Corso sperimentale di Arte Sacra Contemporanea nella stessa Accademia. Ha ('insegnato') Pittura in Argentina nelle seguenti città: Buenos Aires (Escuela de Bellas Artes); Cordoba (Museo Carraia); Salta (Escuela de Pittura). Lo studio di Franco Nocera è avvolto nella limpida geometria dei vicoli della Monreale vecchia: triangoli picassiani di cielo azzurro tra muri bigi. A pochi metri c’è la casa di Antonio Veneziano, il poeta. Un pezzo di marmo inchiodato al muro ricorda ai passanti che in quella casa visse un uomo che, nel Cinquecento, tra una lite e l’altra, tra una prigionia nelle carceri di Algeri e una reclusione nelle patrie galere, scrisse dei versi. La lapide non è degna di un Poeta come Veneziano, che fu l’espressione più viva della magnifica turbolenza barocca. Una turbolenza che, come quella di Miguel de Cervantes, suo grande ammiratore ed amico, era lo sfogo della sua irrefrenabile creatività. Accanto, la vecchia fontana dove il poeta si dissetava al ritorno dal suo girovagare nei sogni e nell’irrequieto vivere. Ora è una fontana morta.
Mentre percorro le stradine della città siculo-normanna, l’amico palermitano che mi accompagna dal pittore, mi parla della sua Sicilia che fa male come una spina nel fianco: “Altri popoli hanno la passione della costruzione - mi dice - noi, invece, quella della distruzione. Soffriamo di un’inguaribile tendenza al suicidio. Pur di impedire che il nostro compagno di viaggio giunga alla meta, sceglieremmo di essere azzoppati insieme a lui. Alcuni siciliani illustri, come l’autore del Gattopardo, hanno detto che non cambieremo mai perché crediamo di essere già perfetti; sostengono che solo la nostra vanità è superiore alla nostra miseria”. Alzo lo sguardo verso il Duomo di Monreale. Vi fu un’epoca felice durante la quale i siciliani, posposta la presunzione e l’invidia, furono concordi nel creare insieme la più splendida architettura del mondo occidentale. E ci riuscirono. Per circa centocinquant’anni la Sicilia fu maestra di civiltà in Europa.
Penso a Don Quijote de la Mancha, che ebbe la sublime follia di trasformare le pecore in giganti per poter misurarsi con loro da pari a pari e mi duole la sterile follia di un popolo che non sta in pace se non riesce a trasformare i suoi giganti in pecore. La Sicilia ha bisogno di trovare un suo vero Don Quijote, mi dico. Sul terrazzino bianco con ceramiche, ci attende il pittore. Nello studio un sottofondo di musica classica e poeti, molti poeti raccolti negli scaffali o distesi su un tavolino. I poeti sono gli unici esseri umani che riescono a conservare, inalterato attraverso i millenni, il loro cuore di adolescenti e Franco Nocera, mentre dipinge, ha bisogno di sentirne il battito.
Alle pareti dello studio sono appesi i quadri che rappresentano le tappe più significative del suo percorso artistico. I colori preferiti di Franco Nocera sono i colori della terra siciliana. Egli li porta mescolati col suo sangue d’artista come un seme. Il giallo, il rosso, l’azzurro, il bleu e, qualche volta, il nero, prorompono come esplosioni vulcaniche e si levano verso il cielo per poi ricadere sulla tela in una pioggia di armonia. Il mio occhio di contemplatore si abbandona a questi suoi colori mediterranei come l’acqua dei fiumi verso l’alveo. Quando l’artista mi parla del suo lavoro, dalle sue labbra non parole, ma fiumi di passioni si sospingono con veemenza. Ogni suo dipinto è un frammento di passione. Le sue figure non hanno bisogno di avere lineamenti precisi nè di possedere le tre dimensioni. A volte sono piatte e disarticolate, come gli spasmodici personaggi di Domingo el Greco e, nonostante ciò, sono pregne di vita interiore.
Nell’estetica di Franco Nocera la dimensione barocca s’impone all’artista sempre che i canoni della classicità geometrica non bastano ad esprimere il torrente della sua interiorità. Spesso nei suoi quadri compaiono personaggi acefali che hanno smarrito la testa nella nebbia dei sogni. Le figure degli amanti si fondono con la terra, col cielo e col mare e il loro profilo si perde nell’infinito del cosmo. Diventano circostanza e momento del drammatico vivere dell’universo. Senza affievolire la loro sensualità, si trasfigurano in metafisico messaggio di vita. L’amore è la gravitazione totale di un essere umano verso il cuore della vita. La pittura di Franco Nocera è un’appassionata dichiarazione d’amore. La donna alla quale va indirizzata, è una metafora della vita. La donna, che appare e scompare nelle sue tele è sempre identica e sempre nuova. Come se non fosse una donna, ma un punto cardinale nel viaggio dell’artista alla ricerca di sè stesso. Dall’incantesimo dell’amore egli trae la sua forza poetica. Nelle cime più alte dell’amore, come sul monte Tavor, avvengono le trasformazioni.
La pittura di Nocera nasce da questo suo incontenibile sentimento erotico dell’esistenza e di esso si nutre. Le sue trasfigurazioni si nutrono del mistero del Sole e della Luna, le due divinità primigenie che, sin dall’inizio, guidarono l’eterno pellegrinare dell’uomo alla ricerca dell’immortalità. Tutto il contrario di ciò che, a dire dell’amico palermitano, spinge il siciliano medio ad aspirare alla morte.
E’ importante ritrovare i veri miti - mi dice il pittore - altrimenti i nuovi condottieri di popoli continueranno a costringere i discendenti di Agamennone e di Priamo a battersi per una lattina di Coca- Cola, e perderemo per sempre la bellezza di Elena. Il mondo estetico di Franco Nocera sono i sentimenti semplici e quotidiani che costituiscono la trama di ogni vera vita umana: l’amore per una donna, la malinconia di un’assenza, la speranza e, a volte, la disperazione. Sentimenti elementari ed essenziali attraverso i quali egli ci regala la sua verità interiore ed il suo dramma. Sentimenti che ogni uomo prova, ma che soltanto il vero artista sa mutare in arte.
Scorrono davanti ai miei occhi le tele di Franco Nocera e con loro l’eco delle parole di Giuseppe Tornasi di Lampedusa e di monsignor Mandralisca, il personaggio del mio ultimo romanzo, il quale, parlando della Sicilia, si rivolge al protagonista, uno spagnolo in procinto di rinascere a quarantanni, e gli dice: “Noi amiamo questa nostra terra, l’adoriamo. Ma il nostro amore è un intreccio di narcisismo e di sadomasochismo. Soffriamo nei suoi confronti di una sorta di complesso edipico. Non sappiamo vivere lontani da lei, e, al tempo stesso, desideriamo ucciderla, perché la sua bellezza ci ha castrati, dando al nostro famoso maschilismo rusticano quella nota di patetica incertezza propria dei maschi che nascondono, dietro l’atteggiamento spavaldo, la ferita di un’infanzia trascorsa sotto la protezione incombente di una madre troppo possessiva.”
Non riesco a distogliere il pensiero dalle amare parole dell’amico palermitano. E mi dico che un giorno o l’altro la necessità di costruire vincerà il bisogno di distruggere e i siciliani smetteranno di passare attraverso la vita con lo sguardo altezzoso di chi si sente nel dovere di disprezzare ciò che ignora e si soffermeranno con sapiente umiltà a contemplarla, come io la contemplo, nei dipinti di Franco Nocera.